Il reato di mobbing all’interno dei luoghi di lavoro: datore condannato in sede penale per aver posto in essere una condotta persecutoria nei confronti di un dipendente

Secondo l’ultima massima ufficiale emanata dalla Suprema Corte, “Integra il delitto di atti persecutori la condotta di “mobbing” del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, tali da determinare un “vulnus” alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis cod. pen.” (Cass. Civ. 31273/2020)

La vicenda trae origine dalle plurime condotte persecutorie poste in essere da un amministratore delegato nei confronti di un dipendente, sul luogo di lavoro. A nulla è valso il ricorso dinanzi alle magistrature superiori che hanno confermato la condanna di natura penale, consentendo, quindi, la prosecuzione del regime di detenzione domiciliare a cui era già sottoposto il datore, dopo la sentenza di condanna di primo grado.

Sin dalla sua introduzione, quindi, il reato di mobbing risulta essere sempre più al centro del dibattito giuridico, con specifico riguardo al caso del cosiddetto “mobbing verticale”. Tale reato, infatti, è soggetto a diverse classificazioni in base alle caratteristiche del soggetto agente e a quelle del soggetto passivo, oltre al movente che induce un soggetto a commettere tale delitto. Come riportato dal sito di divulgazione scientifica in ambito giuridico officeadvice.it, il mobbing sul lavoro, potrà essere: verticale (datore dipendente); orizzontale (tra colleghi); combinato (tra soggetti colleghi e in posizione superiore); ascendente (dal lavoratore al datore); strategico (volto ad esempio a liberarsi di un lavoratore); emozionale (es. competizione sul luogo di lavoro, invidia ecc.).

Come detto in precedenza, quello che risulta essere più diffuso è quello verticale. Quindi, dalla casistica emerge con chiarezza che il datore di lavoro tende ad abusare più spesso (rispetto alle altre ipotesi) della propria posizione di superiorità per compiere atti persecutori.

Da un punto di vista di diritto civile, invece, altra importante sentenza emanata dalla Corte di Cassazione è la n. 20774/2018 che, sempre sul tema, ha riconosciuto il mobbing come malattia professionale e quindi indennizzabile da parte dell’Inail. Solitamente chi subisce mobbing, sviluppa malattie come: attacchi di panico, ansia generalizzata o depressione.

A guardare le statistiche pare che siamo, comunque, tra le migliori nazioni, con un comunque non trascurabile 4 %. A livelli europeo il triste primato spetta alla al Regno Unito con il 16,3 %.

A guardare la percentuale, però, non bisogna rasserenarsi molto, perché il 6% corrisponde comunque a milioni di lavoratori e, quindi, la Corte di Cassazione tenderà ad essere sempre più severa per i casi di mobbing, soprattutto, per quello verticale.